- Daniele Pettorelli
La caccia alle balene tra tradizioni, rischi e geopolitica
L’essere umano va fiero delle proprie tradizioni. Siano esse di famiglia, fra amici
o caratteristiche della società in cui viviamo, le tradizioni ci fanno sentire parte di
un gruppo, definiscono il nostro passato e chi siamo oggi. La maggior parte di esse
ci rende orgogliosi, mentre ci chiediamo se altre debbano continuare a essere
rispettate, o se sia finalmente arrivato il momento di smettere. Dopotutto, una
tradizione non è altro che un comportamento generato dalla necessità (o da un
pizzico di sadismo, se pensiamo a quel cugino che a ogni Natale si ostina a gridare
“AMBO!” all’estrazione del primo numero in una partita a tombola).
Al giorno d’oggi, queste consuetudini rappresentano solo un modo per onorare il nostro
passato. Ad esempio, i popoli preistorici che abitavano in prossimità del mare
hanno fatto di quest’ultimo la propria fonte di vita. La pesca rappresentava l’unico
modo per sopravvivere e – con l’evoluzione delle tecnologie – è stato possibile
avventurarsi sempre più lontano dalle coste in cerca di prede di dimensioni
maggiori, in modo da soddisfare il fabbisogno economico-alimentare della
popolazione.
Nonostante le prime testimonianze di caccia alla balena risalgano
addirittura al 6000 A.C., solo nel medioevo si iniziò a commerciare la carne di
questi animali: i primi furono i Baschi, ai quali seguirono gli Olandesi e le
popolazioni scandinave. Per più di otto secoli l’industria baleniera fornì carne,
grasso e combustibile alle popolazioni costiere e non, fino a una drastica riduzione
del commercio nel XIX secolo a causa dello sviluppo di combustibili alternativi
più facilmente reperibili e del collasso della popolazione mondiale di cetacei.
Tuttavia, ancora oggi alcune nazioni praticano la caccia alle balene per scopi
commerciali, alimentari e di ricerca scientifica. Dal punto di vista commerciale, si
tratta di un settore di nicchia e in costante riduzione a causa dei rischi per la salute
derivanti dall’inquinamento dei mari e delle proteste da parte delle organizzazioni
ambientaliste. Molto spesso, l’industria baleniera giustifica le proprie azioni –
frequentemente contestate – sulla base del rispetto delle tradizioni e dei popoli
storicamente impegnati nella caccia alle balene. In realtà, è necessario valutare
quanto questa attività possa essere giustificata dall’osservanza dell’identità
culturale degli Stati coinvolti e quanto invece sia da attribuire a una mera
incapacità di adattamento ad un contesto geopolitico e ambientale inevitabilmente
differente rispetto a quello in cui si è sviluppata la cultura commerciale baleniera.
Isole Faroe: La questione sociale delle Grindadráp
Nella Roma classica, il popolo amava assistere alla caccia nelle arene. Centinaia,
migliaia di animali esotici – feroci o innocui – venivano liberati e inseguiti
dai venatores (cacciatori) e i giochi terminavano solo quando l’ultima delle
creature veniva catturata e uccisa. Non si trattava di una vera e propria caccia: gli
animali, rinchiusi in un’area delimitata priva di alcun reale nascondiglio, non
avevano possibilità di salvarsi. Le venationes non venivano organizzate a scopo
alimentare, bensì per divertire il popolo che, assistendo unitariamente alla
‘’caccia’’, si faceva forte dell’idea della superiorità romana sulla natura. Questi
spettacoli si trasformavano molto spesso in veri e propri massacri: testimonianze
riportano l’uccisione di 11.000 animali in occasione delle celebrazioni per la
conquista della Dacia da parte dell’imperatore Traiano (101-106 d.C.).
Duemila anni dopo, in un piccolo arcipelago del Nord Europa accade ancora
qualcosa di molto simile. Siamo nelle Faroe, nazione costitutiva del Regno di
Danimarca composta da un gruppo di 18 isole rocciose situate a nord della Scozia
e a ovest della Norvegia. Gli abitanti partecipano a una tradizione che risale a più
di cinquecento anni fa: la Grindadráp (letteralmente, messa a morte delle balene).
Quest’ultima consiste in un peculiare metodo di caccia alla balena pilota, una
specie di cetaceo che appartiene al genere dei globicefali. Nel momento in cui una
formazione di questi cetacei viene individuata – da uno dei promontori costieri o
da un’imbarcazione al largo – un gran numero di barche salpa per dirigersi verso il
luogo dell’avvistamento e forzare le balene pilota in direzione di una delle
ventidue aree predisposte allo spiaggiamento, eliminando ogni possibilità di fuga
grazie alla riproduzione di rumori sottomarini che disorientano i mammiferi.
Successivamente, gli abitanti della zona entrano in acqua e uccidono tutti gli
esemplari spiaggiati attraverso la rescissione del midollo spinale.
Nonostante numerose normative nazionali e locali regolino tale caccia – in modo da evitare
che inutili crudeltà vengano perpetrate nei confronti degli animali – ancora oggi si
assiste a un acceso dibattito in merito. Sebbene il taglio attraverso il midollo
spinale dovrebbe garantire ai cetacei una morte istantanea, sono comuni gli errori
effettuati dai partecipanti alla caccia – soprattutto i meno esperti – in grado di
causare sofferenze prolungate (fino a quaranta minuti): talvolta si rende necessario
l’intervento di veterinari che finiscano le balene. È necessario precisare che – in
virtù di una sviluppata intelligenza emotiva e di un’elevata capacità di
comunicazione intraspecifica – i cetacei in generale, e i globicefali in particolare,
sono così legati ai membri del proprio gruppo che risulterebbe impossibile per loro
abbandonarne uno in difficoltà. Di conseguenza, i membri ancora in vita sono
perfettamente in grado di percepire la sofferenza dei propri simili.
Le Grindadráp – che non si svolgono durante uno specifico periodo dell’anno ma
avvengono ogni volta che una formazione viene avvistata in prossimità delle coste
– rientrano in ciò che la Commissione Internazionale per la Caccia alle
balene (IWC) definisce caccia di sussistenza per i popoli indigeni, come accade
per gli Inuit dell’Alaska e del Canada, il popolo Makah dello stato di Washington
e le popolazioni centro-americane e dell’Oceano Indiano.
Tuttavia, gli studi condotti dai ricercatori dell’Arctic Monitoring and
Assessment Programme (AMAP)– l’organizzazione internazionale incaricata di
monitorare lo stato e l’inquinamento dell’ambiente artico – hanno riscontrato
un’elevata concentrazione di mercurio e di altri agenti contaminanti come
i policlorobifenili, mortali se accumulati all’interno del fegato, sia nella carne che
nel grasso di balena. Per questo motivo, le autorità nazionali hanno sconsigliato il
consumo di carne di balena (soprattutto da parte di donne in gravidanza e
bambini), ridotto drasticamente la presenza di tale varietà nei supermercati e
indotto anche le famiglie che partecipano alle Grind a evitare di mangiarne.
Qual è, allora, lo scopo di questa vera e propria mattanza? Dove va a finire la
carne degli animali uccisi?
Come documentato dagli attivisti dell’organizzazione Sea Shepherd e da
numerose foto che circolano in rete, le carcasse degli animali vengono caricate su
dei camion per poi essere rigettate in mare. In quanto allo scopo, le Grind
rappresentano una forma di aggregazione sociale ed un evento molto apprezzato
da parte della popolazione, tanto che anche i bambini (in genere maschi, visto che
tradizionalmente le donne sono escluse dalla caccia) sono educati e invitati a
partecipare. Tuttavia, si riscontra un’inutilità pratica di questa tradizione, che
ormai risulta non più giustificabile né dal punto di vista etico, né da quello della
sussistenza, visti i rischi derivanti dal consumo e l’eliminazione quasi completa
della carne di questi animali dalla dieta della popolazione.
Giappone: sfida all’Occidente
Per comprendere i motivi e gli interessi del Giappone nella caccia alle balene è
necessario analizzare il fenomeno partendo dalle sue radici storiche e culturali.
Sebbene già nel Neolitico gli abitanti dell’arcipelago si nutrissero della carne dei
cetacei spiaggiati, bisogna spingersi sino al periodo Edo (1603-1868) per assistere
alla nascita dell’hogei bunka (letteralmente, cultura baleniera). Quest’epoca vide
non solo una graduale riunificazione del territorio – dopo decenni di lotte intestine
tra signori della guerra – ma anche un enorme sviluppo economico e commerciale
del paese. Con l’evoluzione del trasporto su acqua e il potenziamento delle
infrastrutture fluviali, la pesca si affermò come una delle attività più redditizie.
Conseguentemente, la carne di balena cominciò a diffondersi in regioni prima
scomode e inaccessibili. Con l’aumentare della richiesta si affermò la cattura dei
cetacei tramite rete, metodo messo a punto nel 1677 da diversi gruppi di pescatori
di Taiji che consisteva nello sfiancare gli animali fino a trascinarli a riva.
La locuzione ‘’cultura baleniera’’ si riferisce alla commistione di vari fenomeni
generati dalla caccia a questi cetacei. Dal punto di vista religioso, si assiste alla
nascita di tumuli e templi delle balene, veri e propri monumenti – associati sia al
rito shintoista che a quello buddhista – eretti in onore degli animali marini, oltre
alla diffusione di preghiere, offerte, canzoni di ringraziamento e danze. La ragione
della prosperità di tali usanze è da ricercare nel concetto spirituale nipponico
di reciprocità tra mondo naturale e uomo: ciò che la natura offre in beni
materiali, come la carne di balena, viene restituito dall’uomo sotto forma di beni
spirituali.
Sebbene anche l’artigianato avesse cominciato a sfruttare le ossa di balena per
creare oggetti come ornamenti, else di spada e mobili per la casa, ciò che consacrò
davvero la cultura baleniera fu la popolarità della carne in ambito culinario. Con
una sola balena, infatti, si potevano sfamare numerosi villaggi.
Verso la metà del XIX secolo i gruppi di pescatori giapponesi notarono un calo del
numero di cetacei in acque basse, dovuto alla presenza delle baleniere americane,
francesi e inglesi nell’Oceano Pacifico.
L’arrivo del colonnello statunitense Matthew Perry nel 1853, la conseguente ‘’apertura all’Occidente’’ del Giappone e il rinnovamento economico e socioculturale del periodo
Meiji (1868-1912) contribuirono a trasformare la caccia alla balena da passiva –
svolta unicamente in acque basse per il sostentamento locale – ad attiva, tramite
l’introduzione della fiocina a cannone. È a questo periodo che si ascrivono la
nascita della prima compagnia baleneria nipponica moderna e la crescita della
relativa industria per i successivi trent’anni.
Con la fine del secondo conflitto mondiale e la successiva occupazione
statunitense, la carne di balena fu un tassello importante per la rinascita del paese:
già nel 1947 il 50% della carne consumata in Giappone era di balena. Il mercato
legato alla caccia ai cetacei prosperò sino al 1986, anno in cui entrò in vigore la
moratoria della Commissione Internazionale per la Caccia alle balene (IWC) –
istituita nel 1946 per regolare l’industria baleniera mondiale – in base alla quale i
39 paesi membri vietarono la caccia ai cetacei per scopi commerciali.
Tale veto fu da subito osteggiato da Stati particolarmente invischiati nel mercato
baleniero (Russia, Norvegia, Islanda et cetera) che continuarono le proprie
operazioni in mare aperto. Il Giappone sfruttò una scappatoia per la quale sarebbe
stato in grado di cacciare balene, purché il fine ultimo fosse la ricerca scientifica e
non la vendita della carne. La giustificazione portata avanti da Tokyo non sembra
essere valida poiché – dati alla mano – il numero degli esemplari di cetacei uccisi
dalle baleniere nipponiche è cresciuto a dismisura negli ultimi anni e non è ben
chiaro a che scopo tali ricerche scientifiche vengano condotte.
Nel luglio del 2019, il Giappone ha formalmente ritirato la propria adesione alla
IWC, riprendendo la caccia a scopo commerciale delle specie di cetacei non a
rischio, unicamente nella propria area di competenza. Da qualche settimana,
inoltre, Tokyo ha annunciato l’inizio della nuova stagione di caccia.
Sebbene il Giappone sia – assieme a Islanda e Norvegia – il più grande sostenitore
della caccia alle balene, il perché di tale ostinazione rimane poco chiaro. La
motivazione commerciale non sembra essere convincente, dato che attualmente
oltre il 90% della popolazione giapponese consuma raramente o non consuma
carne di balena, mentre solamente l’11% si dice fortemente a favore della
prosecuzione del programma di caccia. Il mercato nipponico della carne di balena
è talmente poco redditizio che l’Istituto per la ricerca sui cetacei – organizzazione no-profit che si occupa della totalità dei processi produttivi del settore – è abbondantemente finanziato dal governo giapponese.
Conseguentemente, Tokyo è costretta anche ad appoggiarsi a Stati come la
Norvegia – attualmente il più grande cacciatore di cetacei al mondo – per
mantenere vivi i propri interessi nel settore.
Come spiegare, allora, l’ostinazione del Giappone nel proseguire la caccia alle
balene?
Per rispondere a questa domanda è possibile fare riferimento a ‘’Orientalism’’,
saggio pubblicato nel 1978 dal docente statunitense Edward Wadie Sa’id. Nel
suo scritto, Sa’id sostiene che la maggior parte degli studi occidentali riguardo alle
popolazioni e alle culture orientali sia un semplice strumento per giustificare
l’imperialismo europeo e l’autoaffermazione di una presunta e superiore identità
bianca e cristiana. Banalizzando, ogni azione compiuta da un paese non
occidentale sarebbe stigmatizzata in virtù di una supposta inferiorità culturale.
Non si può di certo negare come – in Occidente – l’operato nipponico riguardo
alla caccia alle balene venga visto come una pratica brutale, disumana e dannosa
nei confronti dell’ambiente. Sebbene questa descrizione rappresenti la realtà, non è
chiaro perché le stesse critiche non vengano mosse a Stati europei come Norvegia
e Islanda.
Secondo Kobayashi Kazuhiko, docente di agronomia alla University of Tokyo ed
esperto di abitudini alimentari giapponesi, per l’attuale classe dirigente nipponica
– che è per buona parte anziana – la caccia alle balene è soprattutto una questione
di principio. Negli ultimi secoli il consumo di carne di cetacei ha rappresentato un
importante tassello della cultura culinaria giapponese, soprattutto nel secondo
dopoguerra. In questo senso, le opposizioni internazionali alla caccia alle balene
sono viste come un attacco a una legittima tradizione nazionale e una forma di
imperialismo occidentale, oltre che come un caso di “doppio standard”. Per
giustificarsi, il Giappone fa spesso riferimento ai canguri mangiati in Australia, tra
le principali nazioni a opporsi al programma di caccia alle balene.
Difendere un’identità, affermare una sovranità
La caccia alle balene, così come denunciato da molte organizzazioni non
governative impegnate nelle sfide ambientali – una su tutte, Greenpeace –
rappresenta un enorme pericolo per l’ecosistema marittimo. I cetacei, percorrendo
i fondali oceanici in cerca di prede come vermi o crostacei planctonici ne
favoriscono la proliferazione, poiché tali animali si nutrono dei rifiuti fecali degli
stessi cetacei. Inoltre, le carcasse di balena fungono da rifugio e nutrimento per le
specie che vivono nei fondali oceanici e apportano una grande quantità di carbonio
organico. Semplicisticamente parlando, se le balene dovessero estinguersi la vita
dei mari verrebbe sconvolta, in quanto verrebbe a mancare un tassello
fondamentale della catena alimentare.
I casi di Isole Faroe e Giappone dimostrano come attualmente la caccia alle balene
sia una pratica priva di benefici, oltre che ecologicamente insostenibile. Se da una
parte gli abitanti della nazione costitutiva danese ritengono le Grind una tradizione
distintiva e un fondamentale momento di aggregazione sociale, dall’altra le
autorità giapponesi rifuggono l’idea di cedere alla ‘’morale occidentale’’. In
entrambe le situazioni si assiste a una chiara volontà di affermazione di un’identità
nazionale più e più volte messa in crisi dall’esterno. La caccia alle balene
rappresenta dunque una sorta di argomentazione in difesa della propria sovranità e
della propria cultura, quasi come a voler ribadire che ‘nessun altro può decidere
per noi’.
È giusto stigmatizzare la caccia alle balene, definendola crudele e pericolosa, ma
la comunità internazionale non può limitarsi a delle semplici dichiarazioni, senza
agire concretamente. In questo senso, è necessario che gli Stati che più foraggiano
l’industria baleniera, Norvegia e Islanda, diano un segnale forte ponendo fine a un
mercato che a lungo andare declinerà e genererà unicamente enormi danni
ambientali, piuttosto che profitti.